Categoria: Artisti
Nome: Tiziano Vecellio
 
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Invitato inutilmente a Roma nel 1513, da Pietro Bembo, Tiziano soggiorna a Roma solo nel 1545-46, chiamatovi dai duchi Farnese.

TITOLO ANNI LUOGO ITER
Angioletto con tamburello 1511 Galleria Doria Pamphili 1 e 7
Sacra conversazione 1511 Galleria Doria Pamphili 1 e 7
Il battesimo di Cristo 1512 Pinacoteca Capitolina 1
Amor sacro e profano 1514-1515 Galleria Borghese 1 e 7
Salomè 1515 Galleria Doria Pamphili 1 e 7
Ritratto del violinista 1515 Galleria Spada 5
Madonna in gloria, con bambino e santi 1535 Pinacoteca Vaticana 9
Ritratto del Doge Nicolò Marcello 1542 Pinacoteca Vaticana 9
Ritratto del Cardinale Alessandro Farnese 1545-1546 Tivoli – Villa d'Este Tivoli
Ritratto Filippo II 1553 Gall. Naz. d'arte antica Palazzo Barberini 3
Venere e Adone 1554 Gall. Naz. d'arte antica Palazzo Barberini 3
Venere che benda Amore 1565 circa Galleria Borghese 7

Pittore italiano (Pieve di Cadore 1488 circa - Venezia 1576). La critica moderna ha ormai fissato negli anni 1488-90 circa la data di nascita del T. , che prima si riteneva fosse avvenuta nel 1476-77 per il presupposto che l'artista fosse morto centenario. Discendente di una nobile famiglia cadorina di magistrati, non ancora decenne seguì a Venezia il fratello maggiore Francesco (v. VECELLIO), che lo avviò alla pittura nella bottega di Sebastiano Zuccato, padre dei rinomati mosaicisti Valerio e Francesco. La tradizione vuole che lo Zuccato affidasse poi il giovinetto a Gentile Bellini, al cui insegnamento il precoce adolescente avrebbe preferito quello di Giovanni Bellini, che meglio di ogni altro incarnava gli ideali pittorici dell'epoca. Ma fu soprattutto la pittura di Giorgione a fornire al giovane cadorino l'esempio di una pittura perfetta, dal quale derivare elementi fondamentali per la sua arte. L'insegnamento del Giorgione fu da T. tutt'altro che passivamente subito, ma venne anzi così profondamente rivissuto, che pitture sue furono talvolta credute opere di Giorgione mentre questi era ancora in vita. È questa l'origine di uno dei problemi più affascinanti, complessi e dibattuti dell'intera storia dell'arte italiana. Un intero gruppo di opere, tutte databili tra il 1509 e il 1510 circa, tra le più popolari per la loro qualità pittorica e la loro intensità poetica, sono state alternativamente attribuite all'uno o all'altro dei due artisti, o giudicate il risultato della loro collaborazione, né l'indagine radiografica è sempre valsa a dirimere ogni dubbio sulla paternità dei quadri o sulla misura dell'intervento di T. in opere lasciate incompiute da Giorgione. È questo il caso della Venere dormiente di Dresda, del Concerto campestre del Louvre, del Concerto della Galleria Pitti a Firenze, dell' Adultera di Glasgow, e di altre opere ancora, per le quali si può supporre un intervento di Tiziano successivamente alla morte di Giorgione. Certo è che la collaborazione tra i due artisti dovette essere molto precoce: con Giorgione, Tiziano eseguì, appena ventenne, affreschi oggi quasi totalmente scomparsi nel Fondaco dei Tedeschi a Rialto (1508); di essi rimangono solo le ombre della Nuda (Venezia, Accademia), eseguita da Giorgione, e del cosidetto Compagno della calza di T. (Venezia, Palazzo Ducale). Tracce visibili dell'insegnamento di Giorgione si notano anche nei valori tonali di opere successive, quali la Madonna in trono (Prado) e il S. Marco tra i quattro Santi (Venezia, Sacrestia della Salute), in cui lo schema compositivo della pala di Castelfranco appare interpretato con maggiore energia nelle pose e più netto risalto negli effetti coloristici. Da Venezia, ormai eletta a sua patria, T. non si allontanò quasi mai, se non per brevi viaggi di lavoro a Ferrara, Mantova, Roma e Augusta di Baviera e per le annuali villeggiature estive a Conegliano. Documento di uno di questi eccezionali periodi di lontananza dalla città nella quale (come egli stesso scrive nel 1569) volle sempre "vivere in mediocre fortuna sotto l'ombra dei suoi naturali Signori", sono i tre affreschi con tre Miracolo di S. Antonio eseguiti (1511) a Padova nella Scuola del Santo. Tra essi, meglio di ogni altro rivela una ormai acquisita autonomia di personalità d'artista quello con il Miracolo del neonato che discolpa sua madre dall'accusa di adulterio: le ampie zone di vivo colore, che definiscono lo spazio, sono perfettamente accostate e fuse nell'azione drammatica, la varietà espressiva dei personaggi ha il carattere del ritratto e l'impronta di una ricchissima umanità. Già in questo periodo infatti l'artista si affermava come ritrattista, mostrando il suo intento di caratterizzare non solo il tipo fisico del soggetto ma anche la sua personalità intellettuale e morale, come attestano il presunto Ariosto (Londra, National Gallery), il Gentiluomo col pugno sul libro (Washington, National Gallery), la Schiavona (Londra, National Gallery), ecc. Ma è questo anche il tempo della Madonna detta la Zingarella (Vienna) e delle Sacre Famiglie degli Uffizi, di Vienna e del Prado, in cui le giovani sante splendono di floridezza, con le carni dorate e i capelli biondi, secondo quel tipo di bellezza che poi sarà detto tizianesco, ben diverso da quello sognante e malinconico di Giorgione. A modi più vicini all'arte di questo sono invece ispirati due capolavori, e cioè l' Amor sacro e profano, a Roma in Gall. Borghese (iter 1 e 7) e la Flora (Firenze, Uffizi), espressioni supreme del tipo di bellezza femminile vagheggiato dal Vecellio pur nella sostanziale adesione a motivi giorgioneschi. La Flora (v. tav. CCCXV) palpita di tepore umano, idealizzato sovranamente dal colore nella tenerezza luminosa delle carni; le due figure muliebri del Amor sacro e profano sono creature di classica monumentalità che, semmai, richiamano l'idea delle donne di Raffaello: sedute sui bordi di un sarcofago antico, inserite sullo sfondo di un luminoso paesaggio, serenamente sensuali d'uno splendido naturalismo cinquecentesco, hanno forme opulente, modellate con nitida fermezza vibrante di energia vitale. Nel 1513 T. aveva rifiutato la proposta fattagli dal Bembo di recarsi a Roma quale pittore di corte di Leone X; rimasto a Venezia, poté impiantare la sua bottega in S. Samuele, ma non riuscì ad evitare l'ostilità di Giovanni Bellini, tanto che solo nell'anno della morte del suo antico maestro (1516) poté ottenere il più ambito dei riconoscimenti ufficiali, e cioè l'incarico di dipingere l' Assunta per la Chiesa dei Frari. Pure, nonostante queste contrarietà gli anni intorno al 1515 furono per lui un periodo di intenso lavoro concretatosi in una messe insigne di opere ( Cristo della moneta , Dresda; ritratto di Vincenzo Mosti , Firenze, Pitti; L'uomo col guanto , Parigi, Louvre; Cavaliere di Malta , Uffizi; Violinista , Roma, Gall. Spada (iter 5) ; ecc.). Sono questi alcuni dei fulgidi esempi della ritrattistica tizianesca, così intensi nella loro risoluta naturalezza e nel loro intimo vigore pittorico, nei quali il senso di una limpida costruttività formale prende lentamente il sopravvento sui ricordi del lirismo di Giorgione. Frattanto Tiziano aveva ricevuto da Alfonso d'Este la commissione di due quadri a soggetto mitologico ( Baccanale e Festa di Venere ; entrambi al Prado), ai quali verso il 1523 si aggiungerà il Bacco ed Arianna (Londra, National Gallery), ed aveva condotto a compimento (1516-18) l' Assunta dei Frari. In questo capolavoro l'artista, pur tenendo forse presente la raffaellesca Disputa del Sacramento, dà prova altissima della sua novità creatrice: da tutta la pala prorompe un ugual senso di energia, concreta nelle dinamiche figure degli Apostoli che, con i loro gesti colmi di meraviglia, determinano gli spazi della zona inferiore, ideale nella immagine della Vergine posta al centro della composizione, tutta intrisa di luce e circondata da cori aerei di putti e di angeli. Pari respiro di vita, ma questa volta vibrante di calda sensualità pagana, si sprigiona dal terzo baccanale (il Bacco e Arianna ) eseguito per Alfonso d'Este: una calda luce rende più intenso il naturalismo del tema, mentre i corpi con il loro movimento ebbro e pur pieno di classica armonia determinano prospetticamente lo spazio, tutto intorno al dio mirabilmente colto nell'atto di balzare sul carro. Si viene così definendo il naturalismo del T. , che fonde insieme una visione classica con un dinamismo drammatico creato dal colore e dalla luce. All'incirca allo stesso periodo di tempo appartengono la Vergine adorata da due Santi e dal donatore Alvise Gozzi (Ancona) e il polittico Averoldi, ora nella chiesa dei Ss. Nazzaro e Celso in Brescia; nel pannello centrale di questo bagliori obliqui di una luce rossastra rompono la notte della Resurrezione del Cristo , mettendo in risalto la potente anatomia del Risorto, ispirata dai forti effetti plastici del Laocoonte ; in un pannello laterale, invece, il S. Sebastiano riecheggia l'impostazione di uno Schiavo di Michelangelo, attestando così come sullo studio delle opere dello scultore toscano T. avesse rafforzato la sua capacità di raggiungere una salda robustezza costruttiva. Tra il 1519 e il 1526 T. lavorò alla Deposizione (Parigi, Louvre) per i Gonzaga. L'opera, che fu modello a Van Dyck e a tutto il Seicento, deriva lo schema compositivo da Raffaello, ma interpreta i suggerimenti di questo con intensa e personalissima drammaticità per la patetica partecipazione della natura al dramma divino. A questa sensazione T. ci conduce con la infuocata atmosfera del tramonto che intride di sanguigni riflessi il desolato paesaggio e l'accorata tristezza dei personaggi, disposti ad ellisse intorno alla spoglia di Cristo in un ultimo silenzioso colloquio di sguardi. Un modello che sarà seguito dagli artisti posteriori è anche la celebre Pala di Ca' Pesaro (Venezia, Frari); essa presenta una notevole innovazione iconografica raffigurando la Vergine sul lato destro del quadro, così da lasciar libero lo sguardo di penetrare profondamente nella prospettiva di aria e di luce che circola intorno alle imponenti colonne nella metà superiore del quadro. I personaggi, tutti veri e propri ritratti, sono anch'essi disposti in modo insolito, su una linea diagonale ascendente, e collegati tra loro dagli ampi panneggi fluenti. È andato purtroppo perduto quello che il Vasari considerava il capolavoro del T. , e cioè il Martirio di S. Pietro per la chiesa dei Ss. Giovanni e Paolo a Venezia, che doveva rappresentare il culmine del naturalismo tizianesco. Dopo il 1530 i modi dell'artista, infatti, subiscono un mutamento: il Vecellio dedica una maggiore attenzione al paesaggio, qualificandolo in una visione più oggettiva che ne muta il rapporto con l'uomo; anziché costituire l'elemento dominante della raffigurazione, la figura umana si inserisce nell'ambiente con confidente intimità. Lo si nota nella Madonna del Coniglio (Louvre), con lo splendido sfondo della natura sotto la luce del tramonto, o nella Madonna con il Bambino , S. Caterina e S. Giovannino (Londra, National Gallery), con il suo mirabile accordo di verdi ora teneri ora cupi nell'ampio paesaggio contro la tersa, azzurra visione dei monti all'orizzonte. In questi quadri, concepiti come Sacre Conversazioni, il colore si fa più morbido, le forme perdono ogni naturalistica prepotenza acquistando una dolce serenità dal paesaggio vespertino. Più pacata, con un impasto di colore più delicato di quella giovanile dei Frari, è anche l' Assunta di Verona (1535 circa ), mentre ad una sinfonia pittorica calma e sonora, semplice eppure ricchissima, T. giunge nella Presentazione al Tempio (1538-40) dell'Accademia di Venezia, interessante anche per aver offerto un modello compositivo al Veronese e al Tintoretto. Intanto era avvenuto il primo incontro del maestro con Carlo V (1529), che poi, durante il suo secondo soggiorno bolognese (1532-33), fu definitivamente conquistato dall'arte di lui, tanto da nominarlo suo ritrattista ufficiale, da colmarlo di privilegi e da onorarlo con la sua amicizia. Se ne accrebbero la fama e la fortuna di T. , che dal 1532 poté contare sulla generosa liberalità dei duchi di Urbino. Ne assunse particolare rilievo l'attività del ritrattista, ormai del tutto sciolta dall'iniziale accostamento a Giorgione e portata a cogliere in una pittura raffinata e sontuosa la dignità e il fasto dei nobili committenti ( Carlo V col cane , Prado; Ippolito de' Medici , Pitti; Isabella d'Este , Vienna; Francesco I , Louvre; Francesco Maria della Rovere , Uffizi; Eleonora Gonzaga , Uffizi; Alfonso d'Avalos , Parigi; ecc.). A riscontro dell'aulica nobiltà di questi ritratti ufficiali si pone una delle più fresche creazioni del Vecellio, quel ritratto di un'ignota dama della corte urbinate detta la Bella (Pitti), calda celebrazione della bellezza femminile espressa senza complicazioni intellettualistiche, che trova un'eco nella Venere d'Urbino (Uffizi) dove è rappresentata la medesima ignota modella. È questo il primo esempio di Veneri distese, un tema poi più volte ripreso da T. , come altri analoghi, per giustificare con il pretesto del soggetto mitologico l'ardimento della rappresentazione di un nudo femminile ( Venere del Pardo , Louvre; Danae , Napoli, Madrid, Leningrado e Vienna; serie delle Veneri con organista , Madrid, Berlino e Firenze; Venere e Adone , Londra e Madrid; Venere con suonatore di liuto , New York e Cambridge; Diana e Callisto , Vienna; Diana e Atteone , Londra; ecc.). Lo schema della Venere d'Urbino eseguita per Guidobaldo della Rovere nel 1538, sembra rifarsi a quello della giorgionesca Venere dormiente di Dresda. In realtà, nulla è più lontano dal sonno innocente della dea di Giorgione quanto la pigra indolenza della giovane donna di Tiziano, sensualmente distesa sul letto nell'interno di una stanza signorile, mentre vicino a lei un cagnolino si acciambella nel sonno e le fantesche attendono al loro quotidiano lavoro. Infiltrazioni manieristiche sono già riscontrabili nelle opere del quarto decennio del secolo, ad esempio nella Maddalena di Pitti. Esse acquistano maggior evidenza nelle opere successive al 1540, come riflesso di un particolare momento venutosi a creare nell'ambiente culturale ed artistico veneziano di quel periodo: gli esempi protomanieristici del Pordenone avevano preparato il terreno; a Venezia si diffondeva sempre più il culto per Michelangelo; nel 1539 Francesco Salviati era a Venezia con il suo allievo Giuseppe Porta, che vi rimase definitivamente; si aggiunga l'interesse suscitato dalle opere di Giulio Romano e del Primaticcio attivi a Mantova (e, per commissione di Federico Gonzaga duca di Mantova, il T. stava lavorando in quegli anni ad alcuni Ritratti di Imperatori Romani poi andati perduti). Sono queste le circostanze che spiegano il momentaneo accostamento dell'artista al manierismo e la comparsa nella sua opera dei forti contrasti cromatici, dell'enfasi violenta, delle forme accentuatamente plastiche e contorte che caratterizzano l' Incoronazione di spine del Louvre. Ma il Vecellio, che pur aveva anch'egli subito il fascino di Michelangelo, superò con il suo innato equilibrio il dramma interiore implicito nella nuova corrente pittorica, tornando ben presto alla sua visione dell'individuo signore della vita e dominatore del mondo. Il colore riprende luminosità e scompaiono via via gli accenti astratti che non erano consoni al temperamento artistico del maestro: nell' Ecce Homo (1543) di Vienna già i toni sono placati e l'espressione appare più composta. Per quanto T. , chiamatovi dai duchi Farnese, soggiornasse a Roma nel 1545-46 , la soluzione della crisi manieristica appare già pienamente raggiunta nel Ritratto di Paolo III (Napoli, Capodimonte), così robusto nella determinazione delle forme e così vibrante di una vita tutta naturalistica. Una sottile penetrazione psicologica dei personaggi e dell'ambiente storico traspare dal capolavoro successivo, il ritratto di Paolo III con i nipoti (Napoli, Capodimonte), che lascia indovinare nell'atteggiamento del vegliardo pontefice e sopra tutto in quello di suo nipote Ottavio Farnese il gioco infido delle ambizioni e della sete di potere. La fama di T. come ritrattista era ormai altissima, né poteva essere diversamente data la sincerità brutale con la quale l'artista aveva messo a fuoco il carattere cinico e violento di Pietro Aretino (1545) nel ritratto della Galleria Pitti. Di poco posteriore, o del 1552 circa, dovrebbe essere anche il Ritratto della Famiglia Vendramin (Londra, National Gallery), concepito conme una Sacra Conversazione, ma assurgente e indimenticabile apoteosi dell'esistenza umana per la sontuosa pienezza e per l'incorruttbile splendore della materia pittorica. Ma prove anche più alte del suo genio di ritrattista T. avrebbe dato quando, appena un anno dopo il suo ritorno a Venezia da Roma, venne invitato da Carlo V a recarsi ad Augusta, dove l'imperatore aveva indetto la dieta dell'Impero (1548) per celebrare la vittoria riportata a Mühlberg sulla Lega di Smalcalda. La presenza nella città bavarese della fastosa corte imperiale e di molti tra i sovrani degli stati tedeschi fu per l'artista un'occasione stimolante per una serie eccezionale di ritratti ( Carlo V seduto , Monaco; Isabella di Portogallo , Madrid; Nicola Perrenot , Besançon; Antonio Perrenot , Kansas City; Giovanni Federico di Sassonia , Vienna; ecc.), tutti altissimi, ma pur tutti superati da quello di Carlo V a cavallo (Prado), vera esaltazione eroica del potere regale del vincitore di Mühlberg. L'imperatore vi è raffigurato sul campo di battaglia, rigido, nella ricca armatura, sul bruno cavallo scalpitante; la solitudine della scena, avvolta nelle calde tonalità del tramonto, i riflessi della luce sulla corazza, il contrasto tra i rossi della gualdrappa e il mantello bruno del cavallo assumono accenti di una solenne epicità. Quest'intensa operosità di ritrattista non rallentava per altro l'attività di T. , autore di scene sacre e profane. La sua crescente maturità si manifesta anzi nell'appagato edonismo delle scene mitologiche e profane ( Venere col suonatore d'organo , Prado; Danae , Prado; Adone e Venere , Prado; ecc.) da lui eseguite per Filippo II di Spagna (dal 1553 in poi) o per altri committenti. Ed è significativo che proprio in questo ordine di soggetti, negli ultimi anni del Vecellio, si compia il trapasso verso un estremo impressionismo. Se nella Venere che benda Amore (1565 circa), della Gall. Borghese a Roma (iter 1 e 7) , l'artista sembra tornare al mondo felice della giovinezza, rivivendo il mito pagano di una miracolosa fusione di natura e di idea, nella Danae del Prado le figure della ninfa abbandonata sull'alcova e della vecchia protesa a raccogliere nel grembiule piegato la pioggia d'oro, sembrano quasi prive di peso: i contorni hanno perduto ogni determinatezza, sfumano in aloni e si dissolvono in impasti preziosi, filtrati da dense penombre. Così Tiziano sembra veramente divenire il grande precursore dell'impressionismo moderno, anche se quest'ultimo suo atteggiamento stilistico rivela piuttosto la caduta dell'illusione rinascimentale che aveva esaltato l'uomo come dominatore e signore dell'universo. Il matrimonio della prediletta figlia Lavinia (1555), la scomparsa dell'Aretino (1556), la morte di Carlo V (1558) e del fratello Francesco (1559): intorno al vecchio artista il mondo delle cose e degli affetti che tanto aveva amato andava lentamente scomparendo, lasciandolo solo con i suoi fantasmi poetici a prendere coscienza della vanità della vita. Così egli ci appare nell'Autoritratto del Prado, dove si raffigura ottantenne con il pennello in mano e con il volto consunto dagli anni; così egli affida il messaggio della sua angoscia segreta alla drammaticità tutta interiore delle sue estreme creazioni, dall' Annunciazione della chiesa di S. Salvatore a Venezia (1564-66 circa) alla tarda versione della Deposizione del Prado (1566 circa). Ed anche quando, nell' Incoronazione di spine di Monaco (1570 circa), egli riprende di peso lo schema compositivo realizzato nell'opera di uguale soggetto, ora al Louvre, circa venticinque anni prima, in realtà vi infonde uno spirito del tutto diverso, tanto la dichiarata ispirazione manieristica del quadro precedente viene ora come dissolta dalle mobili luci guizzanti che tramutano in larve le figure brutali dei persecutori del Cristo. Né minor drammaticità, anche se affidata ad un soggetto mitologico caro alla tradizione rinascimentale, hanno le due versioni (a Cambridge e a Vienna) del Tarquinio e Lucrezia , fantasmi brancolanti in una dissolta atmosfera cromatica esprimente con shakespiriana intensità la violenta cupidigia sensuale dell'uomo e la disperata repulsa della donna. Fino a lasciare, quale suo testamento e cristiana conclusione della sua lunghissima attività di creatore, la dolente Pietà della Accademia di Venezia, compiuta con reverente cura da Palma il Giovane dopo la sua morte. "È stato Tiziano sanissimo e fortunato, quant'alcun altro suo pari sia stato ancor mai; e non ha mai avuto dal cielo se non favori e felicità". Così scriveva il Vasari poco prima che l'artista si spegnesse nella sua casa veneziana, resa deserta dalla peste che allora infieriva nella città. E a chi ricordi come in poco più di settanta anni di ininterrotta attività l'artista avesse creato un imponente complesso di capolavori, da stare alla pari, se non da superare, la produzione immensa di Rubens o di un Rembrandt, e come da questa così eccezionale e quasi titanica grandezza avesse ricavato ricchezze ed onori in misura forse superiore a quelli, già straordinari, ottenuti da Raffaello; quando si pensa insomma al lunghissimo cammino con il quale egli accompagnò lo svolgimento dell'arte italiana dal pieno Rinascimento fin quasi alle soglie del barocco; allora quel giudizio del Vasari, pur dettato da una involontaria incomprensione, sembrerà giustificato. Chè la superba sicurezza e la stupefacente molteplicità di interessi del Vecellio sembrano veramente dominare la crisi che travagliò la storia civile, religiosa ed artistica del suo tempo. Ma quando si osservano i gialli lividi e fiochi della sua Pietà , che spirano un freddo alito di morte, allora la felicità umana e terrena di Tiziano ci appare tutta risolta in quel suo testamento spirituale colmo di accenti religiosi intensamente drammatici. E la memoria che gli uomini serbano di lui non resta più affidata alla transeunte ricchezza degli onori che lo resero invidiato, ma solo al messaggio imperituro della sua arte.

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