Categoria: Artisti
Nome: Tintoretto
 
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Nome con cui è noto il pittore italiano JACOPO ROBUSTI (Venezia 1518 - ivi 1594). Figlio di un modesto tintore di nome Battista (e dalla professione paterna gli venne il soprannome di Tintoretto), a quanto racconta il suo biografo Ridolfi, negli anni giovanili fu a bottega da Tiziano, ma non vi rimase a lungo per aver suscitato la gelosia del maestro dando prova di eccezionali capacità e per averne provocato la reazione con il suo fiero carattere. Certo, almeno inizialmente, egli derivò da Tiziano il senso del colore, sebbene alla formazione della sua sensibilità cromatica dovettero contribuire anche il Pitati e lo Schiavone, mentre le ricerche di chiaroscuro e di movimento del manierismo tosco-romano, da lui conosciuto tramite le opere del Pordenone e del Sansovino, gli dovettero offrire preziosi suggerimenti per gli schemi compositivi, rafforzando in lui quei modi fantastici e mossi, cui spontaneamente lo indirizzava il suo inquieto temperamento. Infine, egli studiò sulle opere di Michelangelo la tecnica del nudo, tanto da far sottolineare dalla critica il "michelangiolismo" di molti suoi lavori e da giustificare la narrazione del Ridolfi, secondo il quale il T. avrebbe assunto come insegna per il proprio studio la frase Il disegno di Michelangelo e il colorito di Tiziano . Queste premesse composite non alterarono la personalità del pittore, ma ne permisero anzi il rapido sviluppo; da esse deriva infatti il luminismo dinamico di Jacopo, capace di creare insieme effetti di luce e di moto, suggestioni drammatiche o magiche, prospettive e scorci audacissimi. Anche se le prime sue opere giovanili sicure cadono tra il 1540 e il 1547 (due Scene mitologiche ; Ultima Cena della chiesa di S. Marcuola; ecc.), il suo primo dipinto di grande impegno è il Miracolo di S. Marco (Venezia, Accademia), del 1548. Con uno scorcio ardito, il Santo è rappresentato mentre piomba dall'alto, invisibile al semicerchio di persone che circondano lo schiavo ignudo e ne osservano stupiti le catene infrante; i caldi valori tonali sono tizianeschi, ma l'insieme della composizione, la plasticità delle forme, che ricordano da vicino Michelangelo, e una certa enfasi narrativa sono già manieristiche. Dopo il 1550 al T. , ormai pittore di grido, vennero affidate numerose commissioni da parte di privati, di confraternite e della Repubblica. Al 1553 risale il S. Giorgio e il drago (Londra, National Gallery), un'opera che rivela un accostamento a Paolo Veronese nell'ampiezza degli spazi e nella luminosità del colore, e che nel balenio circolare dei raggi attesta come la luce fosse divenuta l'elemento sempre più dominante nello stile del pittore. Agli anni tra il 1550 e il 1553 circa appartengono anche le Storie Bibliche eseguite per la Scuola della Trinità; in esse si osservano un sempre più approfondito studio del nudo, affrontato con scorci complessi, ed un'intensa ricerca di effetti contrastanti di luce ed ombra. A quanto attesta il Ridolfi, il T. avrebbe studiato questi effetti luministici ricorrendo all'ausilio di un'illuminazione artificiale; certo è che essi, con la evoluzione del suo stile, si andranno intensificando, fino a ridurre la figura umana a sola luce, colore e movimento. Un capolavoro da assegnarsi agli anni 1555-1560 è la Susanna e i vecchioni (Vienna), caratterizzato dall'intensa luminosità del nudo femminile, dalla mirabile resa dei particolari paesaggistici e dal perfetto equilibrio tre le parti. Il tema dei miracoli di S. Marco, già affrontato dall'artista nel 1548, venne da lui ripreso in altri tre quadri ( Rinvenimento del corpo di S. Marco ; Trafugamento del corpo di S. Marco ; Miracolo del naufrago ) eseguiti tra il 1562 e il 1568 circa su commissione della Scuola di S. Marco. In queste opere le prospettive si approfondiscono, scandite da luce e ombra: è la luce che crea e disfa i corpi e che alternandosi all'ombra dà alla composizione un tono drammatico, mentre le audacie degli scorci diventano più spettacolari. Specie nel Rinvenimento (gli altri due teleri hanno subito notevoli alterazioni e restauri), è evidente l'ansia dell'artista di moltiplicare lo spazio approfondendolo con la fuga prospettica degli archi, sottolineata dall'illuminazione incandescente del portico; eppure, nonostante questa varietà di elementi compositivi, il dipinto conserva unità e coerenza, né scade nel tono teatrale ed enfatico al quale il T. non si sottrae in altre opere, meno felici, di quegli stessi anni ( Adorazione del Vitello d'oro ; Giudizio universale ). Alla sua massima impresa pittorica, e cioè alla decorazione della Scuola di S. Rocco con 50 teleri ispirati al Vecchio e al Nuovo Testamento , il T. attese in tre momenti diversi della vita: al 1564-66 appartengono le pitture dell'Albergo; al 1576-1581 quelle della Sala grande superiore; al 1583-87 quelle della Sala terrena. È stato detto che la Scuola di San Rocco fu per il maestro veneziano ciò che la Sistina era stato per Michelangelo, cioè la prova suprema di un dominio assoluto dell'arte, la interpretazione mirabile di un mondo fantastico che balena all'immaginazione ed eccita il sentimento. Certo è che solo una intensa spiritualità e un febbrile estro fantastico potevano dar corpo a questo grande poema biblico che trasferisce sul piano sacro le inquietudini e le angosce di un'epoca tra le più tormentate della storia italiana. Che nell'immenso ciclo dei 50 teleri si notino talvolta disuguaglianze, momenti di stanchezza, lo scadere dell'intuizione artistica nel mestiere, è evidente; come è ovvio che in un'opera la cui esecuzione durò altre vent'anni sia avvertibile un'evoluzione stilistica ben constatabile quando si confrontino i teleri della Sala dell'Albergo, nei quali la composizione ha una definizione spaziale precisa ed il colore una ricchezza di valori tonali notevole, con quelli della Sala superiore, caratterizzati invece dalla riduzione del colorismo a contrasti chioroscurali accentuati e da un movimento più convulso e drammatico. Si guardino, ad esempio, il bellissimo Cristo davanti a Pilato e la grandiosa Crocifissione della Stanza dell'Albergo. Nel primo il bianco, intriso di una luce un po' spenta, del manto che avvolge il Cristo, posto a contrasto con l'oscurità del fondo, sottolinea la umanità intensa e dolente del Redentore: l'impasto luminoso del colore del viso, l'aureola costituita soltanto da tocchi di luce, la morbidezza del corpo e delle mani sono notazioni psicologiche altrettanto efficaci. Nella immensa Crocifissione il linguaggio concitato della composizione, affollata di personaggi disposti a cerchio intorno alla Croce ma posti su piani diversi in modo da creare punti prospettici diversi e incrociati, trova la sua unità nella luce che collega i vari episodi e che immerge tutta la scena in un'atmosfera fantastica e irreale. Un tono più intimo e pacato, forse per suggestione di analoghe opere del Bassano, si nota invece nella Natività della Sala grande; la luce irrompe improvvisa dall'alto e illumina la scena, divisa in due piani sovrapposti secondo la antica tradizione medievale, accendendo bagliori sui membri della Sacra Famiglia e sui Pastori e individuando anche umili particolari, come un gallo o un cesto di uova. Nell' Ascensione , anch'essa nella Sala grande, luce e movimento si fondono rompendo gli schemi prospettici in una trionfale visione che esalta la gigantesca figura del Cristo sostenuto da un vorticoso volo di Angeli, preludendo quasi all'arte del Greco; le figure degli Apostoli, poste in un piano più basso, sono come smaterializzate, ridotte a semplici parvenze luminose. Questo processo luministico di smaterializzazione dei corpi appare ancora più sensibile nei teleri della Sala terrena, eseguiti, come è stato detto, nel 1583-87. Ne è una prova l' Adorazione dei Magi , in cui le figure del corteo non sono altro che un impasto di luce e di colore, fasci di pennellate che puntualizzano il movimento ignorando la concretezza della materia. O si guardino i due dipinti con Maria Egiziaca e Maria Maddalena, analoghi per lo schema compositivo verticale e per il senso di remota solitudine e di meditazione che emana dai loro romantici paesaggi notturni immersi in una calda tonalità rossiccia. In entrambi i teleri la luce penetra di lato investendo Maria Egiziaca alle spalle e Maria Maddalena di faccia, posandosi con lievi tocchi sulle acque e sulla chioma sfrangiata di alberi esotici nel paesaggio del primo quadro, bagnando, nel secondo, a chiazze più distese il tronco spoglio di un albero con effetti più drammatici di luci e di ombre. C'è in queste due opere una scioltezza di esecuzione rapida, quasi per cenni, efficacissima nel rivelare le cose, espressiva dei valori mistici, spirituali e psicologici impliciti nei due soggetti, che l'artista ha sentito con profonda e sincera religiosità. Mentre attendeva ai teleri di S. Rocco, il T. eseguiva altri numerosi lavori: le quattro allegorie civili con Arianna , Bacco e Venere , Pallade che scaccia Marte , le Tre Grazie con Mercurio , la Fucina di Vulcano , terminate nel 1577 per il Palazzo Ducale, il tondo con Giunone che consegna a Venezia il pavone e altre allegorie affrescate nel soffitto della Sala delle Quattro Porte tra il 1578 e il 1581, l'immenso Paradiso per la Sala del Maggior Consiglio, il quadro più grande del mondo, affollato da una miriade di personaggi ruotanti nell'Empireo intorno a Gesù e alla Vergine, e decine di altre opere ancora. L'ultima, più importante fatica del pittore furono le due tele del coro di S. Giorgio Maggiore con La caduta della manna e l' Ultima Cena , del 1594, alquanto insolita, la prima, per il carattere episodico e per il sereno tono agreste del paesaggio forse ispirato dall'intimismo umile del Bassano, tutta fantastica e ricreata dai bagliori di una luce astratta la seconda, tagliata in diagonale da un'audacissima prospettiva. Nella sua lunga carriera il T. aveva eseguito anche numerosi ritratti, caldi di toni di colore, con i consueti balenii di luce e con l'estro fantastico che gli era proprio. Tra i più belli è quello di Jacopo Soranzo (Milano), eseguito nel pieno vigore della maturità; assai interessante anche come documento per la storia della nostra letteratura, è il ritratto di Pietro Aretino, col quale il T. fu in rapporti di cordiale amicizia e con il quale intrecciò una corrispondenza preziosa per fissare la datazione di alcune sue tele. Il significato dell'opera di questo maestro va collegato con la crisi spirituale che dopo la riforma travagliava gli animi dell'ultimo Rinascimento. L'olimpico appagamento dello spirito nella bellezza, la piena fiducia nelle capacità dell'uomo come creatore di valori universali stava ormai tramontando per cedere il passo all'inquietudine, al ripiegamento su se stessi e alla ricerca di nuovi valori interiori e religiosi più consoni alla mutata spiritualità. Anche T. sentì questo dramma, che sfocerà nella sensibilità barocca. La sua tendenza a togliere corporeità alla realtà mediante un luminismo fantastico ed essenziale, la sua insistenza sul gioco tortuoso delle linee spezzate, delle ombre e delle luci corrispondono alla esigenza di esprimere una interiorità tormentata frugandola nel profondo, così come l'aulico classicismo del primo cinquecento aveva espresso la fiducia dell'uomo nel suo dominio sul mondo. La sua stessa indole irrequieta lo spinse a trovare nuovi modi per esprimersi, diversi dal tonalismo veneziano e dal plasticismo manieristico, e nessuno di questi mezzi gli era più congeniale della luce balenante e irreale con la quale costruì le sue tele, una luce del tutto diversa da quella naturale, capace di ricreare la realtà interiore delle cose, del tutto libera dalle apparenze esteriori, quale l'artista la percepiva nella interiorità dell'animo suo. Da un'esigenza di allargare e di approfondire gli spazi, quasi per una sete di infinito, nascono le audaci prospettive (si pensi, ad esempio, all' Ultima Cena della Scuola di S. Rocco o alla Lavanda dei piedi del Prado), l'incrociarsi dei piani, gli scorci spettacolari, quel tono di teatralità che ad alcuni critici appare come l'elemento negativo dell'arte del T. Eppure, questo spirito tormentato e sinceramente religioso, che seppe esprimersi ora con la drammatica tragicità delle sue Crocifissioni , ora con il malinconico idillio della sua Fuga in Egitto (Venezia, S. Rocco), trovò anche accenti di calda sensualità nella definizione del nudo femminile in una serie di quadri a soggetti biblici ( Giuseppe e la moglie di Putifarre ; Prado), mitologici ( Venere e Vulcano ; Monaco) o allegorici ( Concerto ; Dresda). Tanto varie e complesse sono le componenti della sua personalità: dall'enfasi scenografica della Presa di Zara (Venezia, Palazzo Ducale), all'intimità raccolta e meditabonda della S. Maria Egiziaca , dalla drammaticità intensa della Pietà di Brera alla purezza quasi idillica nell' Adamo ed Eva dell'Accademia, atteggiamenti, questi, diversi ed anche contrastanti, ma tutti ugualmente riscattati da una partecipazione sincera al tema e da un prodigiosa padronanza di mezzi pittorici. Un'operosità così vasta, che abbraccia centinaia di opere, non potrebbe essere stata compiuta senza l'aiuto di scolari che furono spesso anche collaboratori; e il maestro ne ebbe parecchi - Antonio Vasilacchi detto l'Aliense; Andrea Vicentino; i figli DOMENICO, detto anch'egli il Tintoretto (Venezia1560 - ivi 1635), MARCO (n. forse 1561) e MARIETTA, detta la Tintoretta (n. forse 1556) - ma tutti mediocri: l'unico che traesse dalla sua arte giovanile elementi vivificanti fu il maggiore maestro del manierismo europeo, e cioè il Greco. Anche per questo alunno ideale, ma non solo per questo, la personalità del maestro veneziano ci appare quella di uno dei maggiori protagonisti della pittura europea moderna.

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